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Veroli, Festival della Filosofia – Dacia Maraini e la bellezza della poesia in un ‘cesso’ di un ghetto

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Introdotta da Francesca Cerquozzi e Fabrizio Vona, la bellezza ha preso casa su una poltrona rossa nel Chiostro di Sant’Agostino. La voce pacata e le sue parole ferme. Intervento pulito, di profonda intelligenza, spirito critico e dolcezza. La Bellezza è stata lei, Dacia Maraini, ospite della seconda serata del Festival della Filosofia di Veroli. La bellezza delle sue rughe eleganti e in bella mostra, la bellezza di quel riavvolgere il nastro del suo vissuto senza tristezza e senza nostalgia, ma come spinta a riscoprire la strutturale connessione tra etica ed estetica, tra giustizia e bellezza, e ad attivare una scelta morale per migliorare il mondo e noi stessi.

Quella bellezza che non è mai separata da un concetto etico del mondo. Rispettare la bellezza vuol dire rispettare l’altro, il territorio, l’ambiente. La bellezza è integrità e misura, armonia e rispetto per ciò che ha vita. Quella bellezza modificata  dalla storia,  epoche diverse bellezze diverse. Fino ad arrivare ad oggi, dove assistiamo ad una bellezza umiliata, senza interiorità, divenuta una questione mercantile. Bellezza come fatto culturale: dalla sacralità del corpo materno alle teorie antropologiche ‘patriarcali’ di Eschilo. La bellezza come Eros, come armonia, come parola. La bellezza di una donna, la Maraini,  che sa bene che è il mondo a cambiare la bellezza, ma che non si arrende alla mediocrità dei tempi e riempie quella falla morale con le parole e la speranza che la scuola sia di nuovo ‘Scuola’. Lei che ha vissuto la  prigionia in Giappone insieme alla sua famiglia ed i suoi genitori sono stati i suoi libri.

La bellezza dell’Incontro con la Maraini è stato proprio in quel  poco ‘filosofeggiare’ e fissare un concetto di bellezza che non sta nel bene o nel male, nella vita o nella morte, nella luce o nel buio. Sta lì, al centro ed all’opposto esatto di ogni cosa. Ma la vera bellezza si è schiusa nel finale, nella testimonianza di un prigioniero francese in un campo di concentramento nazista che, insieme ai suoi compagni, “si radunavano nell’unico luogo dove i nazisti non entravano e dove non sarebbero stati presi di mira: nel cesso. Qui, in un posto schifoso e puzzolente, si dicevano le poesie a memoria e, se non fosse stato per quelle poesie, il prigioniero racconta che non sarebbe sopravvissuto, perché l’orrore del campo era tale che l’unica consolazione era la poesia, la gioia di qualcosa che rappresentava un ritmo, una musicalità”. Da qui, “nell’orrore, l’armonia e la bellezza davano un attimo di vita, di gioia di vivere”.

Sarebbe superfluo aggiungere altro. In un mondo che cerca forzatamente una ‘ragione’, siamo viandanti ciechi in una notte profonda. Più che camminare in una direzione, procediamo affannati tra inciampi, ostacoli invisibili, girando in tondo, senza una traccia, in attesa di un’alba lontana che potrebbe non arrivare mai. La ‘Bellezza’ è in quel viaggio, tra orrori, sdrucciole, stonature, corpi deformati da vanità senza consonanza. Ma nonostante tutto trovare la poesia in ogni cosa che restituisce dignità ad ogni segno minimo di ‘armonia’ per mantiene in piedi case cadute.

Monia Lauroni