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Ti saluto così… ad un anno dalla scomparsa di Pietro Spagnoli

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Trenta Giugno 2022. Sembrava che quelle giornata già dalle prime ore del mattino non avesse più nulla da dire. Che si stesse consegnando alla notte silenziosamente, pronta a essere dimenticata tra mille altre, come quelle pagine bianche che, ogni tanto, si trovano nei libri. Invece, dopo poche ore di aria immobile, il cielo si aprì a rapidi sprazzi di luce livida, mentre dal cellulare che avevo in borsa risuonava un rombo sordo, sommesso, continuo. E fu allora che si levò un vento freddo, inatteso, come uno straniero che giunge avvolto dal buio. Con sé, l’odore di tele e legni, le luci spente delle case, lo stormire sommesso dei rami degli alberi e una voce lontana, dalle parole indistinte. Quasi un saluto da un mondo remoto, dove riposano compimenti spezzati e i suoni delle parole che non avrei sentito mai più. “È morto Pietro”. “Pietro chi?” fu la mia prima risposta vigliacca ad uno dei tanti messaggi. Sapevo benissimo chi. Ma non volevo saperlo. Pietro, proprio quel Pietro lì. Pietro Spagnoli, l’artista, il pensatore libero, il mio grillo parlante, il mio amico. Quel giorno, ricordo, lavorai con più accanimento, faceva caldo, sentivo addosso i vestiti sudati. Lacrime e sudore hanno in fondo lo stesso sapore. Non la sopportavo quella cosa lì, sapevo che sarebbe successa, quindi dovevo incassare il colpo e basta. Bella roba pensai: meravigliosa prontezza di rassegnazione quando a crepare sono gli altri! Ma Pietro non erano ‘gli altri’. Non per me. La notizia risuonò tutto il giorno e quello successivo e quello successivo ancora. Una specie di lutto cittadino non decretato. Quindi era proprio così, Pietro era morto davvero. Incomprensibile, perché ad un artista ed un amico non è dato morire. Non scrissi nulla, non dissi nulla. Quando il chiodo si conficca nella tua di carne, aspetti che a raccontarlo siano gli altri.  Scorrevo sui social e rileggevo.  Rileggevo e passavo oltre.  Forse perché, per come lo conoscevo io, non era esattamente Pietro, quel bravo artista che in tanti stavano salutando. Non il mio amico Pietro. Pochi hanno “osato” nel ricordarlo. Troppi coccodrilli, troppo disinteresse per l’uomo e troppa enfasi sul personaggio, sul luogo comune dell’artista intoccabile anche se poi l’opera veniva analizzata sempre dalla superficie più facile e comoda: della serie diciamo che è un genio e ce la caviamo.  Un obiettivo di Pietro era mettere in luce la pochezza di quello che siamo su questa Terra, cosa che, una volta constatata, portava al senso del sacro. Pietro era lucida arte e tensione. Domanda e inquietudine. Ecco,  quella tensione alla “difficoltà” che sembrava un vero e proprio Ying e Yang della composizione, finalmente coeso e intercambiabile, pronto per moltiplicarsi alla bisogna. Pietro era il pensiero attorno alle cose. Mi diceva di parlare più forte che non sentiva bene. Invece no, sentiva tutto. Tutto lo toccava, lo travolgeva, lo agitava. Pietro sentiva anime e tristezze. Parole, colori e gioia disumana dell’esistere. Parlava con la Terra, e la Terra gli rispondeva. Di quanto sia stato grande Pietro l’artista se ne coglie il valore assoluto in tutto ciò che ha lasciato di tangibile. Sotto i tocchi di Pietro una carne nuova veniva al mondo. Prendeva sangue, calore, buio e luce  rivelando una storia e promettendo una trascendenza. La mano che chiedeva pazienza, il tempo fiducia.  Era Pietro, Pietro Spagnoli, che nelle sue creazioni metteva tutto e il contrario di tutto come in un continuo delirio di prospettiva emotiva che però poi era sempre coerente anche se sul filo del baratro. Un po’ alla Escher quando l’opposizione tra il sopra e il sotto non ha senso.  Era Pietro, nel suo ghigno irripetibile, nella sua intelligente ironia, nelle nostre lunghe chiacchierate e nei nostri progetti rimasti nel mondo delle idee. Per ora.  Semplicemente manchi. Quanto a me rimango solo testimone di quando mi confessò anni prima, la volontà di scomparire quando la fine si sarebbe fatta vicina e quando nei suoi occhi il desiderio si fosse affievolito fino a diventare ricordo. Voleva così. Come solo chi ama la vita fino a celebrarla con un addio tanto certo.  Era un  giorno di dicembre, mi pare di ricordare, quando il cielo di giorno è sempre terso e di notte è ancora possibile trovare una discreta casa dell’oppio, approdo dell’ultimo viaggio.   Ti saluto così, avrei dovuto farlo prima e non ne ho avuto la forza. Lo faccio ora pubblicamente e non lo farò mai più.   Per te occorrono più ‘luoghi veri’ in cui stare a parlarti ancora. Senza pubblicare foto, senza raccontarlo a nessuno.

Monia Lauroni