Giovanni Minnucci è Professore ordinario di Storia del diritto medievale e moderno presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali dell’Università degli Studi di Siena. E’ stato Pro Rettore Vicario dell’Ateneo e Preside della Facoltà di Scienze Politiche. E’ nato, però, ad Alatri, uno dei motivi per cui è stato recentemente chiamato a presiedere e ad introdurre il convegno organizzato dal Comune di Roccasecca che, a conclusione dei lavori, ha assegnato ad Umberto Eco il premio San Tommaso d’Aquino : un riconoscimento consegnato a il prof. Eco per la sua tesi sul problema estetico dell’ Angelico Dottore.
Abbiamo interpellato il prof. Minnucci per comprendere meglio le radici e l’attualità del pensiero tomista e per approfondire alcune tematiche, da lui toccate nel corso del Convegno, anche in relazione alla vocazione culturale della nostra Terra.
– Professore, il premio assegnato ad Umberto Eco presso Roccasecca durante il convengo da lei presieduto, è significativo di quanto, a prescindere dalla distanza storica e cronologica, alcune riflessioni restino inequivocabilmente attuali. Ci spiegherebbe perchè, ancora oggi, Tommaso d’Aquino è oggetto di riscoperta e discussione?
Premetto che non sono uno specialista del pensiero di S. Tommaso anche se, da storico del diritto, succede spesso di doversi confrontare col pensiero dell’Aquinate. Come ho sostenuto durante il Convegno, Tommaso è un uomo del suo tempo, ma vi sono alcuni passaggi del suo pensiero sui quali occorre tornare a riflettere e a misurarsi. Uno per tutti: la comunitas degli uomini viene posta al centro della sua concezione giuridico-politica talché il rapporto unus homo-comunitas è un rapporto imperfectum-perfectum “tanto che – sono parole di Tommaso – non vi può essere bene individuale senza il bene comune, o della famiglia, o della comunità politica”. Non l’individualismo, quindi, ma la riscoperta del valore vero dell’individuo solo come parte di una comunità. Una concezione su cui meditare in un tempo di crisi – che non è solo economica – come quello presente.
– Nel corso del suo intervento, lei ha accostato il pensatore aquinate alla figura di Giorgio La Pira. Quali sono gli elementi teoretici complementari, in materia di diritto, tra queste due figure così apparentemente distanti almeno sotto il profilo temporale?
Dovendo aprire il Convegno con un discorso introduttivo, necessariamente breve, ho ritenuto di poter individuare una possibile chiave di lettura in alcuni opuscoli pubblicati dal La Pira nel 1939-40 ai quali dette il nome, e non per caso, di Principî. Proprio mentre scoppiava il 2 conflitto mondiale La Pira, constatato il fallimento della Società delle Nazioni, scriveva contro la guerra di aggressione – senza peraltro citare quella in atto – alla luce del pensiero dei “classici” fra i quali Tommaso. Alla guerra di aggressione mancavano infatti i requisiti della “recta intentio” e della “iusta causa” che la risalente dottrina sulla “guerra giusta” (uno strumento che bisognava comunque cercare sempre di evitare) aveva individuato come alcuni degli elementi imprescindibili. “Recta intentio” e “iusta causa” che, invece, secondo il La Pira, potevano essere il fondamento di una reazione da parte della Societa Internazionale alla guerra di aggressione.
Come ho detto durante il Convegno, nei momenti difficili, occorre tornare a riflettere e ad interrogarsi alla luce del pensiero dei classici: Tommaso lo è, e La Pira lo fece. Inoltre, per Tommaso la “causa religionis” non è mai una causa legittima per muovere guerra: ed anche su questo oggi c’è molto da riflettere.
– Tra i molti aspetti da lei toccati nella giornata dedicata al fondatore del tomismo, risulta di particolare interesse, viste le vicende di attualità, il rapporto tra la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo e la dichiarazione islamica di questi. Siamo dinanzi ad una ipotetica relativizzazione del diritto naturale?
Discorso complesso che richiederebbe molto spazio. In ogni caso rispondo subito: No, nessuna relativizzazione. L’insegnamento di Tommaso si compendia nel principio che le leggi positive debbono essere conformi alla ragione: esse, pertanto, non debbono essere il frutto dell’arbitraria volontà di chi detiene il potere, o avere fini non giustificabili razionalmente. La grandezza del suo pensiero sta nella restaurata relazione tra i due sembianti del diritto, quello immutabile e fermo dei principî e quello mobile e plastico delle regole legali: tolta quella relazione, restano solo le sabbie mobili di una normazione arbitraria, priva di senso, perché incapace di riferirsi ad una base stabile del diritto. La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è stata uno dei frutti proficui di tutto ciò. Oggi l’universalità di quella Dichiarazione viene negata da altre culture con la redazione di “Carte”, come la Dichiarazione araba e la Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo che sono, fra l’altro, in alcuni punti, diverse fra loro.
Ho detto, con molta chiarezza, che non possiamo vivere senza distinguere tra ciò che per noi può assumere una dimensione “relativa” e ciò che, al contrario, ha le caratteristiche dell’assolutezza: caratteristiche che sono proprie di diritti (cui corrispondono dei doveri), ormai definitivamente acquisiti ed irrinunciabili. Nessuno di noi, oggi, metterebbe in discussione, ad esempio, la libertà di ogni credo religioso, e il diritto di cambiare religione; la parità sostanziale tra uomo e donna e la dignità di quest’ultima; così come ognuno di noi condannerebbe le discriminazioni basate sulla razza (basti il rinvio all’art. 3 della nostra Costituzione), così come condannerebbe indiscutibilmente i Lager, i Gulag, la schiavitù, lo sfruttamento dei bambini. Sono principî irrinunciabili, sono verità esistenziali e morali. Poco importa se provengono da dettami religiosi o elaborati dalla coscienza umana, o se sono il frutto di un’esperienza secolare. Sono “diritti naturali-razionali”, derivanti da quei principî quali, ad esempio, la dignità della persona, assolutamente ed indiscutibilmente irrinunciabili.
Il percorso che la civiltà occidentale ha compiuto nel corso dei secoli – un percorso non privo storicamente di colpe – si è sostanziato in un cammino nel quale, almeno in alcune delle sue fasi, diritto e teologia hanno saputo proficuamente dialogare (e Tommaso ne è uno degli esempi massimi), alla ricerca di quei principî cardine sui quali fondare il rapporto dialettico con la legislazione che, da quei principî, non dovrebbe mai prescindere. Solo su queste basi – solo cioè nella condivisione della necessità di una rapporto fecondo tra fede e ragione, al quale non può non conseguire un dialogo fra il diritto naturale-razionale e la dimensione civile-politica della legislazione – l’umanità, tutta l’umanità, potrà proseguire nella ricerca della giustizia. Segnali importanti, in questa direzione, vengono anche da altre culture e da altre fedi: bisogna coglierli e sostenerli.
– Infine, Professore, al termine della sua relazione ha posto fortemente l’accento sul ruolo storico che la nostra terra, a causa del forte legame che intercorre tra nascita e lo sviluppo del diritto per come lo conosciamo e la presenza, proprio qui da noi, di numerosi monasteri benedettini, si trova a dover interpretare e soddisfare. Ci evidenzierebbe questo aspetto e i suoi auspici ad esso legati?
Sono nato in questa Terra; ad essa sono stato e sono ancòra profondamente legato ancorché, da più di quarant’anni, io viva e lavori in Toscana. Ho sempre pensato che la linea ideale che congiunge i grandi monasteri benedettini di questo spicchio di Terra abbia costituito, emblematicamente, la culla della civiltà occidentale, non solo sotto il profilo religioso, ma anche sotto quello della trasmissione dei saperi. Credo che la piena coscienza di ciò dia un compito storico a questa Terra, alla nostra Terra: quella di essere testimone, sotto il profilo culturale, non solo di un passato importante, ma di una attualità che si deve radicare in coloro che – come Tommaso e come molti altri – qui hanno vissuto, e che hanno contribuito con la loro dottrina e con le loro opere a segnare la storia dell’umanità.