HOMEPAGE CULTURA PELLE DI TAMBURO, UN ROMANZO INEDITO DI GUALBERTO ALVINO

PELLE DI TAMBURO, UN ROMANZO INEDITO DI GUALBERTO ALVINO

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Il nuovo romanzo di Gualberto Alvino ci pone di fronte a un dilemma: leggere la realtà attraverso il linguaggio parlato può costituire uno dei modi migliori per fare letteratura? Basta leggere la storia della protagonista di Pelle di tamburo per rispondere affermativamente. Lei racconta in prima persona le sue avventure con linguaggio immediato, elettrico, paranoico, creando immagini e fatti travolgenti all’occhio del lettore, che si ritrova come in una sala da cinema a vedere un film. La clochard, che vive sotto un ponte sul Biondo Tevere assieme alla cagnetta Blu, è uscita dal manicomio dove si trovava bene in un «mare bianco» con «qualche stilla rossa» e una vita regolata da altri, senza scelte obbligate. Con tutti quei «suoni puzze colori sapori» che riesce a governare benissimo, e (questo il nome che si è data, rigorosamente minuscolo) ha il pieno controllo su tutto l’ambiente.
I colori ci tengono compagnia nel viaggio picaresco di e: il loro significato va oltre quello fisico, oltre il fenomeno della radiazione elettromagnetica (di cui e è comunque ferratissima conoscitrice). Faceva la maestra prima del fattaccio, dunque è molto colta e ha una sua logica, che applica sempre nella vita. Attenzione: niente retorica del pazzo nel romanzo di Alvino, bensì meccanica gaddiana serratissima che prende il lettore sin dalle prime battute. Non si riesce a staccare lo sguardo dalle pagine/fotogrammi; il lettore dimentica il proprio quotidiano, il proprio essere, come Gió (un amico di e), diventando coprotagonista.
Dall’inizio si è straniati, avvinti, sconvolti e cullati dalle parole della clochard che ci si materializza davanti mentre parla, racconta, uccide, ruba, dialoga con se stessa, con gli amici e i nemici, con Blu e con il Tevere che lei chiama “Biondo”.
Più ci si addentra nel suo mondo, proseguendo nella lettura, più i sentimenti ci travolgono e viviamo l’angoscia e l’allegria di quel sogno nel sogno. La maestra-clochard in una delle più belle pagine ci letizia con una lezione di linguistica alla de Saussure: senza fronzoli, senza accademia, senza orpelli decorativi, ma lineare e precisa da «uscire pazzi».
C’è Joyce, Artaud, Campana, Rabelais, Villon, Petronio Arbitro, lo “stilista” Louis-Ferdinand Céline… e la Lingua di e li cucina, li mangia, ingoia, se li fa e se ne disfa con «fame da iena».
A un certo punto, senza accorgersene, assistiamo alla magia delle magie: svanisce e e financo l’autore; resta l’opera da rileggere daccapo, all’infinito, a proprio piacimento.
Non so se potrà piacere a tutti questo “cibo”, ma il lettore non di bocca buona andrà certamente in visibilio.

Patrizio Minnucci