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“Parigi Hammamet” di Bettino Craxi, la recensione di Verrengia al di là della polemica

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Si metta momentaneamente da parte la damnatio memoriae o la celebrazione postuma e si consideri questo singolare reperto narrativo, che narrativo non è. Parigi Hammamet, il romanzo di Bettino Craxi, esce nel detonare del dibattito scaturito dal ventennale della sua morte, con l’aggiunta del biopic di Gianni Amelio. Molti politici, prima e dopo di lui, si sono cimentati con la prosa, abbandonando per l’occasione il linguaggio dei ruoli istituzionali. Fra loro, un buon risultato lo ottenne Luigi Preti, che nel 1964 pubblicò Giovinezza, giovinezza con lo pseudonimo di A. M. Fabbri, da cui Franco Rossi ricavò un film cinque anni dopo. Da ultimo, Walter Ventroni ha scritto un giallo, Assassinio a Villa Borghese. Ma nel caso di Craxi, la posta in gioco era ben altra. Lui aveva rappresentato la reviviscenza di un sogno: trasferire agli anni Ottanta il fervore, l’espansionismo economico e la ricchezza diffusa di due decenni prima. Salvo che stavolta, o meglio, quella volta, il “boom” era stato letterale, esploso nelle inchieste, nel disavanzo della spesa pubblica che si sconta ancora oggi, nel potere bersagliato dalle monetine.

Parigi Hammametè la controrisposta di chi quel passaggio di cronaca divenuto storia lo visse sulla propria pelle. E con questo libro lancia messaggi al Paese e al mondo.

Craxi, però, non gioca in prima persona. Affida il racconto all’oscuro Karim, un agente segreto di secondo piano che agirebbe per conto della Tunisia, invece fin dall’inizio si rivela una sorta di fedelissimo cane da guardia del protagonista, Ghino. In quest’ultimo, l’ex leader socialista raffigura se stesso, con il gusto di ritrarsi attraverso gli occhi altrui. E si descrive come lo si conosceva, alto, carismatico e già infermo per via del diabete. Compare a Parigi, già espatriato, vittima di un attentato che fallisce grazie a Karim, alle guardie del corpo e a Nadezda, affascinante “granderussa” che agisce per conto del governo postcomunista di Mosca. Si è naturalmente negli anni Novanta, quando la catarsi di Mani Pulite è già compiuta e inizia l’era del turbocapitalismo. È la spia russa a rivelare il complotto che starebbe consumandosi ai danni dell’intero pianeta. Una congrega formata da magnati dell’economia, think thank americani e pedine piazzate nelle istituzioni nei media vorrebbe creare l’assetto di una società globale dominata e dominabile dalla tecnocrazia e dalla finanza. Ghino, con la sua rilevanza per nulla intaccata dalle condanne giudiziarie, rappresenta, ancora in vita, un ostacolo da rimuovere.

Così riassunta sembrerebbe una rilettura fin troppo scontata del repertorio che fece parte del crepuscolo di Craxi. Sennonché, in Parigi Hammamet si trovano intuizioni che forse tali non sono di retroscena, circostanze e persone su cui tutt’ora non si fa o non si vuol fare chiarezza. Inoltre, stupisce la ricchezza lessicale di queste pagine, non limitata alla materia di cui Craxi e il suo alter ego Ghino erano perfettamente padroni. Nella reclusione della vera Hammamet, il regista della Milano da bere trova lo spazio interiore per affondi fraseologici che si diramano in tentacoli che avvincono l’attenzione dei lettori, anche i più scettici, disincantati e forse livorosi.

Il dettaglio più sconcertante è che l’organizzazione misteriosa che bracca Ghino è denominata con la parola greca che indica il mucchio, e ha una trasparente assonanza: Koros.

 

Enzo Verrengia

Bettino Craxi, Parigi Hammamet (Mondadori, pp. 158, Euro 17,00)