L’America dove si cura bene solo chi ha i soldi e l’Italia dove si curano tutti con il budget della comunità. E dove si strappano alla morte persone anche quando Covid distoglie energie e risorse da tutto. Da un lato Donald Trump che spende un milione di euro per curarsi dal Covid e dall’altro una equipe medica frusinate che punta su un solo paziente anziano più di un milione di euro di medicinali specifici. E gli salva la vita in barba al suo essere “parte improduttiva della società”. Perché questo fanno una sanità che funzione e camici bianchi che hanno cuore e attributi: salvano vite e basta. Tutte le vite che possono. È l’Italia che vogliamo tutti, quella che tutto sommato c’è sempre stata. C’è la malasanità e c’è la sanità buona. Poi c`è la sanità che semplicemente funziona e che lo fa esattamente al momento giusto: quando cioè il mondo sembra andare a rotoli e servono quei miracoli che il mondo lo rimettono in asse. Miracoli fatti di impegno, professionalità d’avanguardia, tenacia e calore umano. Tutto ingredienti messi sul piatto al reparto di ematologia dell’ospedale Fabrizio Spaziani di Frosinone da un’equipe che ha vinto su un rarissimo caso di emofilia acquisita con carenza del fattore VIII. Comprendere la portata del fatto senza compendio sul male che quel fatto ha determinato è impossibile. Si ridurrebbe il tutto al ‘solito’ cliché pur lodevolissimo di una sanità che funziona e che in stereotipo va a bilanciare i suoi mali, e la maggior appetibilità giornalistica di questi ultimi. No, quello che ha fatto l’equipe del professor Alessandro Andriani è molto di più: in medicina pura, tigna e gioco di circostanze. Il paziente in questione è mio padre, Ferruccio Lauroni di Veroli, ha 76 anni e pare sia entrato nel suo personalissimo calvario a seguito della puntura di un ragno violino o comunque dell’ingresso nel suo sangue di una tossina esterna. All’improvviso il suo organismo ha iniziato a produrre anticorpi che invece di distruggere gli ospiti esterni hanno cominciato a “mangiare” i compagni di viaggio, nella fattispecie piastrine. Di fatto è l’anticamera di una morte lenta e ad occhi aperti. In poco meno di tre giorni è diventato una larva in perenne pericolo di emorragie irrefrenabili perché continue, senza il fondamentale stop della coagulazione. Due volte è andato vicinissimo a cedere e due volte è stato ripreso con una tempestività spaventosamente efficace. Ma i medici di Ematologia dello Spaziani hanno fatto di più, lo hanno fatto su una malattia che colpisce una persona su più di un milione. Hanno tirato fuori la tigna vera dei giuranti ad Ippocrate. Lo hanno fatto con l’aiuto di un team di infermieri a cui dare la patente di angeli è atto dovuto e glorioso. Consulti con l’Umberto Primo, con Tor Vergata, con il Gemelli e la Cattolica. Tutto per trovare conferma ad un indirizzo terapeutico che era quello vincente, deciso in Ciociaria e portato allo stato dell’arte. E farmaci, farmaci immunosoppressori che costano come il bilancio di un piccolo comune e sfasciano altri posti del corpo su cui bisogna intervenire, ogni giorno, ogni notte. E con il caos di Covid che si riappropria di tutti i reparti, che monopolizza tutte le paure, le attenzioni, le energie e le risorse. Dopo 47 giorni mio padre ha vinto perché a vincere con lui e per lui sono stati i medici e gli infermieri di Ematologia dell’ospedale Fabrizio Spaziani di Frosinone. E con loro ha vinto un modello di sanità che oggi più che mai ha bisogno di essere incentivato, capito, e lodato nella misura in cui non molla. E se non ha mollato con mio padre che è stato curato meglio di Donald Trump dal sistema complesso in cui vive come cittadino e paziente allora vuol dire che non mollerà con nessuno. Perché se tutti i medici e gli infermieri sono come quelli che ho incontrato io prima piangendo e poi ridendo a cuore aperto al quinto piano dello Spaziani, allora chiunque ha una speranza di dare scacco matto alla bestia con la falce. Indipendentemente da chi è, da quanto guadagna e da quante persone ha ai suoi ordini. Come mio padre, come tutti padri che sentono che quello è l’ultimo viaggio e ad attenderli non ci saranno carrozze e cavalli. Forse avrei dovuto raccontare solo del dolore che provoca la malattia, ma quando salvano la vita a chi la vita te l’ha data allora bisogna parlare di coraggio, amore, rispetto, senso del dovere e forza, perché in questa storia bisogna vederne la parte più nobile che pure esiste e non è possibile negare. Grazie… A dire il vero sarebbe bastato solo un grazie. Grande. A chi è rimasto aggrappato a questa battaglia di un uomo comune, di una figlia comune, fino a farsi sanguinare le mani.
Monia Lauroni