Luciano Bianciardi (Grosseto 1922 – Milano 1971), scrittore e fine traduttore si fece conoscere dal grosso pubblico scrivendo con Cassola “I minatori della Maremma” nel 1956. Ma la sua vita intellettuale fu densa di pubblicazioni che andrebbero finalmente rivalutate. Basti pensare alla cosiddetta “Trilogia della rabbia” composta dai bellissimi romanzi Il lavoro culturale, L’integrazione e La vita agra.
Nella “Battaglia Soda” del 1964 il racconto copre gli anni dalla presa di Capua del primo novembre 1860 alla battaglia di Custoza del 24 giugno 1866, con una coda sui fatti successivi (Mentana soprattutto). Il romanzo si immagina scritto nel 1876 quando il protagonista ha 42 anni. Raccontato in prima persona, anonimo, l’autore ha avuto in mente la figura di Giuseppe Bandi, conterraneo di Bianciardi, garibaldino coi Mille, ferito a Calatafimi e promosso Maggiore a ventisei anni sul campo.
Sulla spedizione, dice Bianciardi, il Bandi ci ha lasciato un libro che egli leggeva e rileggeva sin da quando era bambino. Ecco perchè La Battaglia Soda ha molti passi ripresi dal Bandi. Quando Bianciardi nella prima pagina dice “come già ho spiegato”, l’allusione è al Bandi. E quando nelle ultime righe afferma che “queste cose le ho già raccontate”, sempre al Bandi allude, e precisamente a un altro suo libretto ormai rarissimo dal titolo “Da Custoza in Croazia, memorie di un prigioniero”.
Il Bandi combattè a Custoza ma non fu mai preso prigioniero. Lo immaginò e scrisse quel racconto in prima persona. La stessa cosa fece Bianciardi con lui, “mettendomi i suoi panni, adottando la sua lingua”.
Non fu un esperimento di laboratorio come non lo era la lingua della Vita agra. Bianciardi credeva che quando uno scrittore entra in un contenuto e in un’atmosfera, la lingua gli venga fatta da sè e non gli occorra sovrapporla ai fatti che racconta. Secondo Bianciardi non c’era altro modo per raccontare dal di dentro quella storia ambientata negli anni delusivi del Risorgimento. Fatta l’unità d’Italia ciò parve un miracolo e al miracolo si gridò; ma fin troppo presto apparve chiaro quanti nodi insoluti vi erano nel tessuto della nuova Italia. Uno soprattutto, insoluto ancora oggi: l’unione del sud al nord, che avvenne col modo dell’annessione, anzi della conquista piemontese. Donde la sanguinosa guerra dei briganti contro gli invasori. Una faccia di tale spinoso nodo è la sorte dei garibaldini. Disfatto il loro esercito, accolti nelle fila dei regolari solamente quelli che davano garanzia di conformismo, la parte “azionistica” ne usciva ancora battuta, anche per la sua dabbenaggine. Ecco perchè il protagonista della Battaglia Soda non è un uomo molto intelligente. Impulsivo, generoso, pronto all’ira e poi al perdono, quindi alle lacrime, conserva tuttavia l’autoironia.
L’ironia del protagonista talvolta si sovrappone a quella dell’autore ma sarebbe un errore leggere il libro come un “pastiche” sfottente sul Risorgimento. Difatti dice Bianciardi “la delusione di allora è anche una verifica della delusione nostra”, una specie di controllo nel passato per ritrovarvi i nostri errori e le nostre speranze. A Custoza siamo stati sconfitti anche noi. I grossi fatti del libro sono scrupolosamente veri: le parole di Garibaldi, la lettera di Mazzini (che sembra inventata), le linee generali della battaglia di Custoza, i nomi e i numeri dei reparti, gli ufficiali superiori dal grado di colonnello in su. Sono veri anche i nomi degli ufficiali subalterni e dei soldati: nomi di persone d’oggi, di solito amici di Bianciardi che egli ha adoperato come comparse e “figuranti speciali”.
Patrizio Minnucci