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La ‘Pietà’ di Jago, orgoglio ed eccellenza frusinate, resterà esposta a Roma fino al 28 febbraio 2022.

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All’interno della Cappella del Crocifisso della Basilica di Santa Maria in Montesanto, la Chiesa degli Artisti, c’è Jago, un’eccellenza frusinate con la sua ‘Pietà’. Uno dei pochi artisti che rinuncia alla ‘vanità’ per scavare nel profondo. Succede così che il potere evocativo della forma si potenzia e con esso anche la sua risonanza simbolica, le sue chiavi di lettura. E nella Pietà di Jago, questo potere, è per chi la osserva, tanto onesto da diventare ‘imbarazzante’. Un violare un dolore antico, talmente straziante da non trovare riparo.   

 Il dolore della perdita, la resa dell’abbandono. Un confronto stridente capace di alterare qualcosa di completamente stabile, definito, compiuto. Qualcosa che non lascia aperto il campo ad una infinità di possibili interpretazioni. Passione e abbandono in una continua ricerca della contraddizione che appare come costante di fondo, quasi un’assenza della ragione, dalla quale scaturisce il fascino indefinito e indefinibile che l’ opera suscita.  Ogni contrazione muscolare, ogni esplicita o impercettibile deformazione di quel volto pieno di dolore, tanto che crediamo quasi di sentire noi stessi quel dolore, apre uno spazio, una ferita, uno stigma, il cuore allo scoperto da cui parte un grido.

Jago non segue la suprema legge dell’artista, la legge della bellezza.  Le passioni forti deformano, abbruttiscono il volto, stridono con la figurazione. Quell’uomo, l’uomo di Jago, è destinato a subire quel martirio per l’eternità. Un corpo sciolto nel racconto delle proprie avarie  che tiene tra le braccia un corpo che già non appartiene più a questa terra, ma nell’atto di tornare terra. Lo si piange nella sua bellezza come strada da percorrere a piedi scalzi nella polvere, come spazio muto che attende silenzio. Lo strazio di Jago è il Filottete di Socrate che grida, la disperazione che affonda in un bianco bugiardo e ammaliante. E’ quello che  crediamo di vedere in certi sogni che ci agitano il sonno perché sappiamo che qualcosa di grave possa succedere da un momento all’altro, ma al tempo stesso ne siamo affascinati, quasi che, osservandolo quel dolore, potessimo scoprire qualcosa che ci riguarda. Lo sguardo regge pochi istanti, c’è necessità di abbassare le palpebre per non sentirsi mortificati. Pare di violarne i pochi istanti deserti che ancora uniscono per gravità d’amore quei corpi. Le mani grosse e ruvide tengono ma non trattengono, sanno che non possono, sudari per un’anima che pacatamente scompare.

Un istante apocrifo che squarcia le labbra come una cancrena. Un dolore deforme di disperazione che inchioda Dio al cielo. Reale oltre la realtà, fibra nuda che resta oltre la povertà delle linee terrene che si disfano. Viene da chiedersi se nell’umile grazia della resa non si possa insegnare qualcosa a Dio. Proprio in quell’istante, quando inevitabilmente la luce si spegne, il pianto si fa sordo e il giorno quietamente finisce. 

Monia Lauroni

 

Foto Cover: Gelso Nero