Quello che molti non si aspettavano ieri alla serata di esordio del secondo Festival della Filosofia di Veroli in fondo era l’unica cosa che ci si sarebbe dovuti aspettare: che ci fosse tanta gente. Ma non solo quello, anche che la gente avesse voglia di interagire e partecipare ad una kermesse che piace e che non imbroda i carnet del presenzialismo estivo ma punta alla giugulare della polpa.
Lo hanno capito subito Fabrizio Vona e Francesca Cerquozzi, art director e nocchiera in punto di governo dell’evento assieme ad un “dream team” che annovera tra gli altri la Pro Loco di Gianluca Scaccia e l’ufficio-fucina di Mauro Ranelli. Ed è stato bello perciò vederli partire entrambi col piglio di chi è in gran spolvero perché la sua creatura ha mollato gli ormeggi facile e ha preso subito abbrivio d’onda. Il primo ricordando il valore di un evento che supera e mette le briglie al materialismo mercatale dei tempi, la seconda pigiando su un concetto serio a cui Cerquozzi è salita in arcione con una accresciuta maturità assertiva che non è passata inosservata: il mondo che covid ci ha consegnato non è né migliore né peggiore di quello precedente, è diverso, e la bellezza con le sue declinazioni è la chiave di volta per la rielaborazione di un nuovo pensiero collettivo.
La Bellezza era il tema, cardine dell’evento e fatto sui vari step da qui al 17 luglio. E se come primo cantore delle sue epifani chiami Erri De Luca allora lui nel farlo farà quello che sa fare meglio, cioè Erri De Luca. Perciò si entra sornioni a metà presentazione, ci si siede a bordo palco con le gambe a ciondolare ritmiche nell’aria e si proclama che no, delle poltrone proprio non si è amici si va solo in canovaccio d’indole. E De Luca, che del pensiero schietto conosce lusinghe e carisma, ha chiarito in esordio una cosa che proprio gli stava sul gozzo: lui con la filosofia c’entra poco nella misura in cui la filosofia ha avuto canone e akme’ con lo “gnotis auton” socratico.
A lui, a De Luca, piacevano i presocratici con il loro piglio di scienziati curiosi, più celesti che terragni e maramaldi, matematici spersi a cercare l’origine del mondo e non le basi della consapevolezza. Ed è da lì, da quell’assunto assurdo e poco ortodosso che si è schiuso il mondo di De Luca, un mondo in cui all’autoreferenzialita’ dell’uomo si è sostituita la riverente paideia verso il contenitore che ne ospita le vicende.
Perché la bellezza che Erri De Luca ha svelato ieri a Veroli non è fatta di canoni, ma del divenire delle sfide che l’altro da noi ci impone, sfide come quelle della montagna che De Luca ama e dell’ascesa che per De Luca è cammino, del seme che contiene il messaggio a uscire ed ergersi e di una simbologia che non lascia adito a dubbi: al mondo ti devi mettere in gioco per cercarla e difenderla, la bellezza, non in prima fila per gustarla. E devi stanarla nelle pieghe di un linguaggio sublime come l’italiano e di un sacello come il dizionario per metterne a fuoco la “versione 3D”. Per quello e per proteggerla dalle ipocrisie dei miti e dei dogmi che ci consegnano le parole sbagliate ed equivocanti.
Sono parole truffaldine che, orbe del loro significato originario, arrivano a farsi architrave delle condanne moderne che vincono il tempo. E la bellezza è quella sublime di riparare un “femore rotto” e di ascendere dal grado di mandria istintiva a quello di sistema complesso che protegge i deboli, di plotone che viaggia alla velocità esatta del suo uomo più debole. Una bellezza che De Luca ha sostanziato nell’immagine più bella della serata pescata nella biografia dei suoi tormenti: quella dei poeti di Sarajevo che “facevano il turno di notte” a tener viva fino all’alba la fiammella di un mondo che alla follia dei cecchini opponeva la bellezza del verso. E che lo faceva anche in surroga al pane e in esorcismo alla paura indotta da un mondo che ruzzolava verso l’orrore.
No, non è stato difficile per tutta la gente arrivata a Veroli vincere la ritrosia da microfono e fare domande schiette a uno come Erri De Luca. Non è stato difficile perché se la parola è dotta e arcigna essa non lega con le persone e si fa barriera fra il Saggio che la propala e la massa che se la beve. Ma quando la parola è invito amicale a spremerne altre e a disegnare un quadro di cui tutti siamo pittori allora le barriere cadono.
Come ieri a Veroli, nel primo appuntamento di un lungo viaggio estivo verso la rinascita che dopo Covid ci spetta di diritto. E sia santa la semplicità anche banale: alla fin fine la vera bellezza è stato esserci.
Monia Lauroni