HOMEPAGE CRONACA Enzo Verrengia ci racconta “Il sangue dei padri” di Giuseppe Fabro

Enzo Verrengia ci racconta “Il sangue dei padri” di Giuseppe Fabro

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Si provi a immaginare una versione cinematografica de I miserabili in accelerato. Ma non con il ritmo di Quentin Tarantino, bensì di Carlo Lizzani in Svegliati e uccidi e Banditi a Milano. Certo, erano “i favolosi anni Sessanta”, ma già imperversavano il solista del mitra, Luciano Lutring, e la banda Cavallero. Infatti il viraggio in favola del dopoguerra italiano è una semplice operazione nostalgia per smistare capi di abbigliamento vintage e altra paccottiglia. Nella realtà, proprio il boom economico generava gli anticorpi, o meglio, le metastasi. Anziché favorire la ricomposizione sociale di un Paese distrutto dalla guerra, il diffuso benessere alimentava i sogni malevoli di una generazione che voleva tutto e subito, senza passare per il lavoro, il sacrificio, la legalità. Come i protagonisti de Il sangue dei padri, dell’esordiente Giuseppe Fabbro, classe 1949, dunque uno che quell’epoca l’ha vissuta davvero. La scena è la Genova di un arco temporale che va dal 1946 al 1971, come dire la meglio gioventù. Mauro Traverso nasce dalla povera Giorgia e da un soldato afroamericano che la violenta nel capoluogo ligure ricoperto dalle rovine dei bombardamenti. Non è Napoli, ma si tratta ugualmente di un “criaturo niro niro”. E da Mauro al soprannome di Moro, il passaggio è naturale. Il rispetto se lo guadagna come ladro d’auto e poi in carcere, sfregiando dei delinquenti romani che volevano fargli il c… Accanto a lui, un’autentica masnada di farabutti, fra i quali spiccano Caio, Matteo, Pumas e Vittorio. Sono alcuni di questi i miserabili del tempo, raccontati da Fabro, appunto, con la fedeltà cronachistica ma pure avvincente e affabulatoria del cinema d’impegno, quello che non accettava l’ammonimento andreottiano di “lavare i panni sporchi in famiglia”. E per questo rimane ancora oggi più sconcertante dell’ultraviolenza artificiosa e artificiale dell’ultima Hollywood, quella di Tarantino. Non sono un gruppo omogeneo, i giovani criminali del libro, malgrado si chiamino fratelli. Ciascuno di loro è una monade di avidità, voglia di affermazione e carica di aggressività senza scusanti. Così, Il sangue dei padri diviene pagina dopo pagina una scorribanda fra scazzottate, pestaggi, rapine e disperazione. Tantissima. Perché dietro ognuno c’è una catastrofe familiare, che assommata alle altre rivela l’inadeguatezza di quell’anima nazionale da cui non sortisce affatto il quadro in technicolor che tutt’ora si vuole spacciare per la verità su quei decenni. La Genova che fada vertice inferiore al triangolo industriale è già una Babilonia incontrollata e incontrollabile quando la televisione ha soltanto due canali e dai juke-box vengono fuori canzoni rassicuranti come In ginocchio da te e Città vuota. Mauro-Moro è una versione teddy-boy di Jean Valejan. A un modello analogo attingeranno Giorgio Scerbanenco, per i suoi ragazzi del massacro, e prima di lui, ad un’altra latitudine, Anthony Burgess per i “drughi” di Arancia meccanica. Giuseppe Fabro racconta senza concessioni retoriche vicende applicabili a tanta cronaca presto obliterata dall’incessante logorio mediatico. E fa di più, ridà alle immagini in bianco e nero che troppo spesso si rivedono oggi in televisione e in streaming un colore molto scomodo, quello del sangue, che scorreva dietro le quinte di un’Italia non riducibile al paradiso di Vacanze romane.

Enzo Verrengia

Giuseppe Fabro, Il sangue dei padri (Rizzoli, pp. 336, Euro 19,00)