Centoquarantatre studenti provenienti da dieci diverse nazioni per la XL edizione della competizione internazionale del Certamen Ciceronianum Arpinas, organizzata dal Centro Studi Umanistici “Marco Tullio Cicerone” in collaborazione con la Città di Arpino e nata nel 1980 ad opera del preside del Tulliano Professor Ugo Quadrini. Quattordici vincitori e tra questi, due studentesse del quinto anno del Liceo Classico dell’Istituto Magistrale Pietrobono di Alatri: Elisa Barbi e Giulia Potenziani. Le giovani intellighentie alatrensi hanno dato prova egregia in questa gara magistrale che, per ovvi motivi legati alla situazione pandemica, si è svolta quest’anno in modalità on line. E la loro abilità è da subito spiccata durante la prima prova, quella sulla traduzione di un brano tratto dall’orazione “Pro Cluentio”, la difesa che Cicerone sostenne in un processo penale celebrato a Roma nel 66 a.c. a favore di un certo Aulo Cluentio Habito, accusato di veneficio.
Uno di quei casi giudiziari che fece scalpore, che tanto piacevano all’indole vanesia e sopraffina dell’autore delle Verrine, e che per anni suscitò l’interesse di tutto il popolo. Un discorso verrebbe dire, uno dei tanti discorsi che inseguono un fine ultimo. Per Cicerone non è proprio così. La traduzione di Cicerone richiede metodi ed abilità che vanno oltre il significato delle parole. Parole e frasi che richiedono una lettura ripetuta e attenta fino a sentirne il gusto della parola, fino a vedere le immagini, fino ad immaginare la gestualità adoperata, ad assaporarne le pause. Endiadi da cesellare e verbi principali da rincorrere fino a schiudere il mistero dei concetti, in punto di diritto e di oratoria. Cicerone era complesso nelle sue strategie. Intelligente, affabulatore, astuto, colto, forse il più grande retore del mondo antico. Quella parte di ‘antico’ che nella storia ha avuto un ruolo fondamentale. Per dirla alla Concetto Marchesi: “Nessun greco sarebbe stato capace di diffondere, come ha fatto Cicerone, il pensiero greco per il mondo” (Demostene in un certo senso ci provò, ma commise “l’errore tecnico” di scegliersi un “vilain” su cui ostinarsi, Filippo di Macedonia, senza maturare appieno la sua immensa bravura).
Quel giovane di provincia nato ad Arpino, di bassa nobiltà, a quindici anni era già a Roma ad ascoltare l’epicureo Fedro con l’amico Tito Pomponio Attico. Entrare in ‘sintonia’ con la mente di Cicerone, cercare tra le righe la sua modernità non è cosa da poco. Questo uomo politico così ‘italiano di oggi’, così pronto a passare dalla parte dei vincitori, al quale va riconosciuto lo straordinario merito di avere latinizzato, italianizzato se vogliamo, otto secoli di filosofia destinati a perire con la lingua greca o latina pura. Solo cinquanta studenti hanno passato la prova dell’orazione ciceroniana avendo così la possibilità di partecipare ad un Corso di Alta Formazione su “La ricezione e l’influsso di Cicerone dall’Antichità alla Cultura Contemporanea” e passare poi alla prova finale consistente nella stesura di un saggio. Vengono i brividi al solo pensiero. Cosa aggiungere al già ‘tantum’ che lui stesso non abbia detto di sé e del mondo intorno? L’eclettico arpinate Cicerone, troppo spesso inserito con leggerezza in un cliché sancito anche a livello proverbiale, basti pensare al termine ‘filippica’, usato in tono quasi dispregiativo.
E qui le giovani studentesse alatrensi non si sono fermate a “mendicare da ogni Scuola brandelli di verità”, ma hanno spiccato il volo verso il prestigio delle opere che riconsegnano Cicerone alla vita moderna dopo l’esilio dell’antico. Solo a quattordici degli studenti in gara è toccata la gloria in excelsis nella competizione arpinate di dimensione internazionale, che gode dell’Alto Patronato del Presidente della Repubblica. Non c’è verità nell’affermare che il latino è una lingua inutile e morta, magari esiliata, quell’esule che “sopravvive alla morte di un suo altro, più autentico sé, che è perduto”. Tra tante mediocrità a grappolo che porteranno prima o poi alla sepoltura dei vivi, il Certamen Ciceronianum Arpinas, resta il filo a cui è legato l’aquilone dei tempi. Merito alle giovani generazioni che ancora lo tengono stretto ma libero di volare sui cieli dei giorni nostri, generazioni che non mendicano rispetto per la prosa alta, ma che si cibano di quelle altitudini per preservarle e farne innamorare altri. Non a caso “mendicare” viene da “manducare”, cioè cibarsi.
Monia Lauroni