Il manicomio, fino agli anni Ottanta, è stato un’istituzione e si è pensato per lungo tempo di organizzarlo come un asilo per alienati. Nel recente romanzo ‘Le case dai tetti rossi’ (Fandango), in occasione della vendita della casa di nonna Altera e nonno Ernesto, il protagonista Alessandro torna ai tetti rossi, ovvero la grande struttura dell’ex ospedale psichiatrico di Ancona, complesso di palazzine nel verde inaugurato a inizi Novecento e riconvertito dopo la Legge Basaglia del 1978. Alessandro Moscè, narratore e poeta marchigiano, ha scritto una narrazione biografica dal tono colloquiale, senz’altro drammatico, ma a tratti anche ironico. Ci descrive il manicomio, uno come tanti nell’Italia del secondo dopoguerra: la terapia dell’isolamento, i luoghi di passeggio e riunione all’interno degli stabili, le stanze dove veniva praticato l’elettroshock, i padiglioni per il passeggio all’aperto, le sale di intrattenimento per l’attività artistica, il vestiario uniforme per i ricoverati (anche per i poveri, i barboni, le prostitute). Il distacco dalla casa dell’infanzia diventa per l’io narrante l’input che lo conduce in un viaggio nel tempo, quando da ragazzino gironzolava intorno ai cancelli per vedere i matti. A dare una svolta alla gestione dell’ospedale, seguendo l’esempio dell’illuminato Basaglia, Alessandro ricorda il dottor Lazzari, un vero e proprio innovatore, l’intransigente caposala suor Germana, il giardiniere Arduino che regalava mazzi di rose alle donne più tristi. Nazzareno raccontava le barzellette ed era un balsamo per tutti i ricoverati. E poi l’uomo giraffa che temeva di essere inseguito dai batteri, Carlo che voleva assomigliare al pirata Sandokan, Franca che sognava i nazisti, di notte, avanzare marciando verso le camerate. Adele ricordava di aver intravisto Mussolini a Fabriano, in incognito, mentre Giordano tifava per la squadra del Napoli e si immedesimava nel suo capitano Totonno Iuliano. Il respiro dei personaggi crea un’atmosfera di ombre mobili, di oscurità e mistero. Il manicomio era una città nella città, il regno isolato della cronaca fuori della cronaca. Sono molti i dialoghi tra ammonimenti e insegnamenti, nella limpidezza comunicativa del personale medico e degli infermieri, dei pazienti, uomini e donne che scoprirono anche l’amore nei giardini dove facevano bella vista la magnolia, il platano, le piante giapponesi. Scrive Moscè: “Si diceva che i medici venissero rispettati come fossero predicatori, ma in fondo anche commiserati, perché il loro era un lavoraccio. Si alternavano in stanze che chiamavano guardiole. Nei fascicoli appuntavano le diagnosi, le cure, qualche considerazione. Erano incartamenti che lasciavano sul tavolo e che le infermiere chiudevano nei cassetti. Gli psichiatri giravano con le chiavi in mano. I più bravi parlavano con i pazienti allettati nel tentativo di risvegliarli dal torpore, mentre i meno clementi tenevano le distanze”. Con la chiusura dei manicomi venne ridata identità e dignità ai pazienti, seppure per qualcuno non fu trovata un’alternativa all’elettroshock, alle misure di contenzione, alle massicce dosi di sedativi. Alessandro Moscè ritorna da adulto in quell’enorme spazio dove ora sono attivi dei poliambulatori. E’ come attraversare filmicamente un’epoca, una realtà minacciata dal senso di oppressione, da un purgatorio di contraddizioni umane. Uno stato di tensione proietta lo scrittore nel silenzio che viene rilasciato in pagine dal tono lirico, senz’altro le più belle.
Monia Lauroni