Spingersi al di là del confine, oltre il quale senso e tempo non hanno dimora. Tra talento e genialità, tra luoghi che hanno un’anima e l’immagine di un tempo che resta ansiosamente sospeso, come in attesa d’un evento che rompa un nocivo sortilegio: quello d’una vita sepolta che torni a risorgere all’improvviso. Un tesoro dissotterrato e strappato alla notte. Una porta stanca di tempo, in un borgo bellissimo che non ti viene incontro, ma te lo devi andare a cercare. Fumone e Giorgio Tolomei, una simbiosi che va al di là del luogo e dell’artista.
E’ qui, nella sua Fumone che Gitò allestisce le sue “sacre” rappresentazioni, per quanto sacrale possa e debba essere considerato l’amore per un luogo, in un’epoca in cui ogni luogo viene costantemente e impunemente dissacrato. Ha scavato e va scavando, in una memoria che seguita a sanguinare come una ferita, quell’’essenziale patrimonio di colori e di vita. Frammenti di vecchie porte, di finestre, di sacchi o di tessuti non parlano di per se stessi, è lui che riesce a restituire a preziosi reperti d’una civiltà pre-consumistica tutto il loro sacrale mistero d’uso. E le cose si arrendono e degnamente decorano e si integrano, si fanno cornice, giorni, stagioni o veste di quelle. Un gatto che struscia alla pietra, piante che colano rigogliose oltre le sbarre del tempo. Vasi di fiori che vincono senza gara sul rossiccio del selciato ed è di nuovo e sempre primavera nella Fumone di Gitò. Lucente, nella sua essenziale bellezza, ella si fa incontro al passante. La nostalgia dei vicoli si schiude adagio sull’immagine di vita.
Quasi si trattasse d’un’antica pala d’altare, in una cripta di azzurro. Gitò scandaglia negli abissi della storia, dissotterra dal silenzio degli anni e delle rovinose mutazioni, tenta di strappare il suo borgo dalla notte impietosa dell’oblio. E ancora, ansiosamente, v’insegue quel senso di sacrale stupore delle cose che si è dissolto dalle nostre vite. E così, Fumone serba il candore della sua grazia tenacemente segreta. E la sua anima in lui riemerge come in una fola. Un grande atto d’amore per la sua terra, una felice e suggestiva testimonianza del suo ‘essere’ e non ‘apparire’. I segni dei riti più consueti d’una vita felice in questi paesi dove non si prende il numero delle presenze, non si firmano quaderni d’ingresso. Questi luoghi sono morti che non si ricambiano e le cose migliori riescono se si assecondano le curve perché qualcosa di buono c’è sempre. Nella polvere che vola, nella paura del tempo che cambia all’improvviso, del sereno, nel silenzio struggente per qualcosa. Sono posti che hanno dignità e solo chi li conosce nelle vene può riportare in vita quell’arreso incanto.
Monia Lauroni