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Il Museo civico di Alatri entra a far parte del Museumgrandtour nel Sistema Museale dei Castelli Romani e Prenestini

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 In fondo cos’è un museo? Ce lo chiediamo ogni volta che ne usciamo da uno. Con quel senso di frustrazione che pizzica quando, nello stupore, ci rendiamo conto che la nostra vista è difettosa, il cuore troppo piccolo, l’anima troppo ingenua. In quei momenti ci verrebbe da imputare questa nostra incapacità a cogliere pienamente la bellezza di ciò che ci si è presentato davanti ad un tempo, il nostro, dove il termine e concetto di cultura è per lo più uno stendardo, sventolato con orgoglio da pochi nostalgici, ma per il resto non molto chiaro alla maggioranza delle persone, di cui tutti noi facciamo degnamente parte. Un museo è tempio, un tempio dove sono richiesti, come in un luogo sacro, umiltà, rispetto e riverenza. E’ lo scheletro dentro la carne della nostra modernità, le ossa di un popolo, di tanti popoli che hanno scolpito, eretto, pregato, scalfito, lavorato. Un insieme di vite oltre la vita che non può esistere nell’individualismo. Operare in rete, condividere progetti, è l’arma più potente per valorizzare il patrimonio culturale e guardarlo con occhi nuovi, moltiplicati, limpidi. La forza del Museumgrandtour sta proprio nella vastità dei territori che copre, dai Colli Albani e Monti Prenestini, una parte della Alta Valle del Sacco fino, grazie all’adesione del Museo civico di Alatri, ad includere la provincia di Frosinone. E qui, nel museo di Alatri, ‘custodito’ dal direttore Luca Attenni, sembra quasi di sentire lo scorrere del tempo in un andirivieni che unisce e divide nello stesso tempo. Un tempo austeramente duecentesco quando Gottifredo Raynaldi fece realizzare la massiccia costruzione che oggi accoglie nel proprio interno le sale del Museo Civico alatrense. E’ da qui che inizia il viaggio, un dialogo duraturo tra le opere dei morti e gli sguardi dei vivi, in un confronto che cerca una risposta a quel come eravamo e se le cose effettivamente stessero così, come le avevamo immaginate. Come ce le avevano raccontate nei libri. Risposte che trovano sostanza nelle sezioni interne del Museo, una dedicata all’epigrafia e una relativa alla demoantropologia. E quel volgersi indietro nel tempo è come volersi accertare che non siamo cresciuti nel sogno, o forse dovremmo dire nel calco di un sogno: la storia e la terra non tradiscono. Non tradiscono le lapidi che documentano un’Aletrium di epoca romana. Non tradiscono e non raccontano bugie l’epigrafe di Lucio Betilieno Varo della seconda metà II secolo a.C, nè le iscrizioni sepolcrali, nè il cippo in calcare dedicato agli dei Penati ed il calco di una iscrizione alle divinità sciamaniche locali. Mosaici pavimentali policromi si ripetono allo sguardo, salgono e scendono ondulati nell’oscurità del tempo. E all’improvviso riesci ad avvertire i più lievi rumori della natura, lo stormire di foglie a centinaia di metri, lo strapparsi del grano sotto il taglio della falce che il vecchio agitava sul grano, la voce urlata dei contadini lontani. Il profumo di quando tutto era lento, uno zappare e strappare semplice, che sembra così lontano, ancestrale, una memoria incancellabile che si materializza e rivive in oltre 1000 oggetti tra strumenti e attrezzature della tradizione agricola e artigianale del Lazio meridionale. Vecchi attrezzi bruniti, decine di arnesi arrugginiti, centinaia. Come strumenti stanchi di fatica dei guerrieri medievali. Quella parte del Lazio contadino eravamo noi, che ci raggrumavamo in un’esile figura di uomo piegato dalla fatica e dalle esperienze di una storia che senza rendercene conto, sempre ci è appartenuta. A questo servono i Musei, una resistenza calcarea a difendere il tempo, a fare in modo che questi spazi non restino una cartolina da osservare con gli occhi di un estraneo. Queste ‘raccolte’, a volte anche poco ragionate ed è meglio così, di oggetti di un mondo lontano che ci vengono incontro come spettri a leggerci una testimonianza che sembra ripetersi all’infinito. Luoghi dove il Tempo si fa Spazio e lo Spazio si fa Tempo, in uno scambio reciproco tra popoli e dei. Fare sistema per dargli ancora vita. Attraverso la condivisione, ritrovare la bellezza ed il senso nobile di ‘famiglia’ che ci accoglie e ci ricompone, ricordandoci di essere già stati altri, altrove, nello spazio e nel tempo.

Monia Lauroni