Hanno l’addome dolente e il morale sotto i tacchi. Sono costretti a modificare stili di vita e abitudini relazionali. Faticano a portare avanti la normale attività professionale. Finora le persone che soffrono di sindrome del colon irritabile sono state etichettate come malati immaginari, vittime di un disturbo psicosomatico. Ma il malessere, invece, ha forme definite: nasce nel tratto digerente e si ripercuote sulla mente. Quasi la metà dei pazienti soffre di ansia e uno su dieci manifesta tratti depressivi. Segno che i trattamenti attuali non sono così soddisfacenti.
UNA PATOLOGIA INCURABILE
La fotografia è stata scattata dall’Aigo, l’Associazione Italiana dei Gastroenterologi ed Endoscopisti Ospedalieri. Da un’indagine condotta per tre mesi su 381 pazienti, campionati in 26 differenti ospedali, è emerso come la malattia determini ripercussioni importanti sulla qualità della vita. A soffrirne sono principalmente le donne, ma ciò che ha stupito è l’assenza di differenza nello stato psicologico registrata tra le persone alla prima diagnosi e i malati cronici. Un’evidenza che, seppur preliminare, ha portato gli specialisti a lanciare un monito: occorre rivalutare questi pazienti, colpiti da un disturbo eterogeneo nelle manifestazioni, troppo spesso trascurati e impossibilitati a seguire una terapia in grado di mettere il disturbo alle spalle.
ESCLUDERE ALTRE MALATTIE E POI CONTROLLARE DIETA
In ospedale arriva soltanto chi accusa i sintomi più acuti: dolori addominali intensi e forte irregolarità nell’emissione delle feci. Molte altre persone si perdono, tra gli ambulatori dei medici di base e i consigli dei farmacisti. Per inquadrare la sindrome del colon irritabile, in assenza di marker specifici, si procede a una diagnosi differenziale. Prima si esclude la presenza di celiachia, sensibilità al glutine (ma i due disturbi spesso coesistono), morbo di Crohn e rettocolite ulcerosa. Dopodiché, se i disturbi ricorrono da almeno tre mesi e non si registra un dimagrimento o l’insorgenza di anemia, si segue la direzione del colon irritabile. L’attacco avviene in due mosse: correzione delle abitudini alimentari (drastica riduzione di latticini, cereali e legumi) e terapia farmacologica, con antispastici, lassativi e antidiarroici.
I MALATI «DISILLUSI» SI AFFIDANO SPESSO AL «FAI DA TE»
«In questo modo si controllano i sintomi della malattia, ma non la si elimina – dichiara Marco Soncini, direttore dell’unità operativa di gastroenterologia ed endoscopia digestiva all’ospedale San Carlo Borromeo di Milano -. Il vero problema è che molti adottano una strategia “fai-da-te”». Basti pensare alle stime, secondo cui a soffrire del disturbo sarebbe una quota di italiani compresa tra il 7% e il 15%. Per far capire quanto ancora resti da scoprire, vale la pena leggere le parole di Alfredo Di Leo, direttore della gastroenterologia universitaria del policlinico di Bari: «L’approccio più efficace è quello dietetico. La sindrome del colon irritabile ha diverse forme e non tutte rispondono allo stesso modo ai farmaci. Le modifiche apportate alla dieta, invece, danno sempre sollievo al paziente, oltre a rappresentare una scelta economicamente vantaggiosa».
PATOLOGIA INVALIDANTE QUANTO IL DIABETE: INFLUISCE SU UMORE
Sullo stato psicologico di queste persone incidono la diagnosi in giovane età e il mancato riconoscimento sociale della malattia, non meno invalidante del diabete e del reflusso gastroesofageo. Chi soffre di colon irritabile ha spesso meno di quarant’anni, si ritrova nella fase ascendente della carriera professionale ed è costretto a limitare drasticamente gli impegni: sociali e professionali. In più, nel tentativo di dare una forma ai propri disturbi, si sottopone a esami e terapie che, a differenza dei percorsi diagnostici per la celiachia o per le malattie infiammatorie intestinali, non vengono rimborsati dal sistema Sanitario Nazionale.
CURE COSTOSE E SENZA PROSPETTIVA DI GUARIGIONE
Spesa pro-capite stimata dall’Aigo: almeno 1200 euro ogni anno. Un piccolo bagno di sangue che, comunque, non porterà mai a una completa guarigione. Chiosa Soncini: «La condizione psicologica di questi pazienti non tende a migliorare, dal momento della diagnosi in avanti. Segno che le terapie sono poco efficaci e il supporto è spesso carente. Senza quest’ultimo, la qualità della vita dei malati è di molto compromessa».
Fonte: lastampa.it