Dal 1° gennaio 2019 entreranno in vigore le nuove regole per la rivalutazione dei trattamenti previdenziali, lo strumento con cui gli importi delle pensioni vengono adeguati all’aumento del costo della vita rilevato dall’ISTAT. Conseguentemente i trattamenti pensionistici torneranno ad essere adeguati all’aumento eventuale dell’inflazione, così da mantenere inalterato il potere di acquisto dell’assegno con il passare degli anni. Adeguamento che però non riguarderà i trattamenti superiori a sei volte il minimo, come sentenziato dalla Corte Costituzionale.
Torna dunque in funzione lo strumento della ‘perequazione’, che era stato bloccato dalla riforma Fornero del 2011 per essere poi reintrodotto dalla legge 174/2013, che ha previsto una fase transitoria con scadenza nel 2016, poi prorogata fino al 2018.
Con la fase transitoria sono stati fissati 5 scaglioni di reddito con relative percentuali di rivalutazione. Ad esempio è stato stabilito che solo coloro che hanno una pensione inferiore a 3 volte il trattamento minimo INPS (per il 2018 pari a 507,42€) possono beneficiare della rivalutazione al 100%, mentre questa percentuale si riduce con l’aumentare del reddito.
Nel dettaglio, le altre percentuali sono:
95%: se l’importo è compreso tra 3 e 4 volte il trattamento minimo;
75%: importo compreso tra 4 e 5 volte il trattamento minimo;
50%: importo compreso tra 5 e 6 volte il trattamento minimo;
45%: importo superiore a 6 volte il trattamento minimo.
La pensione viene rivalutata in maniera inferiore per coloro che hanno un assegno previdenziale elevato. Questa penalizzazione però sarà ridotta a partire dal 1° gennaio del 2019 quando, scaduta la fase transitoria, saranno reintrodotte le percentuali previste dalla legge 388/2000, nella quale sono indicate solo 3 (e non 5) fasce di reddito:
rivalutazione al 100% per pensioni inferiori a 3 volte il trattamento minimo;
rivalutazione al 90% per pensioni comprese tra 3 e 5 volte il trattamento minimo;
rivalutazione al 75% per pensioni superiori a 5 volte il trattamento minimo.
La mancata rivalutazione delle pensioni superiori a sei volte il minimo è legittima: lo stabilisce la Corte Costituzionale. Il ricorso chiedeva di considerare illegittimo il mancato adeguamento delle pensioni superiori a sei volte il minimo previsto dal combinato delle tre leggi relative, lamentando una riduzione del potere d’acquisto pari al 5,78% nel biennio 2012/2013 e del 6,94% nel triennio 2012/2014.
La Corte ribadisce che con la norma sul blocco delle pensioni il legislatore ha bilanciato, nel corretto esercizio della sua discrezionalità, le esigenze finanziarie e l’interesse dei pensionati, tutelandone il potere di acquisto attraverso l’attuazione dei principi di adeguatezza e di proporzionalità: “con la scelta non irragionevole di riconoscere la perequazione in misure percentuali decrescenti all’aumentare dell’importo complessivo del trattamento pensionistico, sino a escluderla per i trattamenti superiori a sei volte il minimo INPS, destinando, così, le limitate risorse finanziarie disponibili, in via prioritaria, alle categorie di pensionati con i trattamenti più bassi”.
Questa scelta legislativa di privilegiare i trattamenti pensionistici di modesto importo: “soddisfa un canone di non irragionevolezza che trova riscontro nei maggiori margini di resistenza delle pensioni di importo più alto rispetto agli effetti dell’inflazione”.
Il blocco è stato limitato ai trattamenti di importo medio-alto: “i quali, proprio per la loro maggiore entità, presentano margini di resistenza all’erosione del potere di acquisto causata dall’inflazione, peraltro di livello piuttosto contenuto negli anni 2011 e 2012”.